Sophie Calle
Was fürchten Sie denn jetzt noch? (Di cosa hai ancora paura adesso?) è un percorso artistico
di Annarosa Romano e Paolo Monterisi che si può considerare come un personale omaggio
a Sophie Calle e alla sua arte “rituale”.
Un po’ come l’omaggio che Roland Barthes farà al suo
scrittore più amato quando, nel libro La chambre claire - Note sur la photographie, scriverà
sulla terza di copertina “in omaggio a Immagine e coscienza di Sartre”. Non è un caso che
si mettano subito a confronto una mostra e un libro, ed in specifico un libro sulla fotografia
come è quello di Barthes. Cercare di raccontare attraverso queste pagine gli scatti fotografici
e i lavori artistici/letterali di Romano e Monterisi diventa fondamentale e fondante. Per
raccogliere, ordinare il disordine, classificare, definire le priorità, cercando di trasformare
il concetto desiderato in concretezza artistica.
“L’opera d’arte – diceva Andrè Breton – ha valore soltanto in quanto sia traversata dai riflessi
del futuro”: il futuro si vagheggia e si racconta, attraverso parole e immagini. Siamo arrivati
al punto in cui le parole nel nostro contemporaneo sono una nuova versione delle immagini
(Nancy Dwyer), e viceversa. Una retorica che porta molti artisti ad usare una comunicazione
sintetizzata attraverso immagine e testo, questi ultimi il più delle volte uniti e allo stesso
tempo autonomi - volutamente - per non produrre riferimenti tra le parti. Una scrittura
fortemente intellettuale, veicolo di messaggi chiarificatori e nel contempo destabilizzanti;
è così che Romano e Monterisi usano il testo nell’arte: forse per dimostrare che l’immagine
non può più considerarsi nella sua egemonia, nella sua autonomia. Il testo scritto, che invade
il campo dell’opera, diventa metafora e necessità per un’immagine che non riuscirebbe da sola
ad ottenere la forza voluta. Così però se ne aumenta l’ambiguità semantica. Un’opposizione
testo-immagine che diventa forte seduzione.
L’opera Was fürchten Sie denn jetzt noch? ha richiesto una continua partecipazione attiva
dell’Altro. In questo caso “l’Altro” è il testo letterario, l’affabulazione “amorosa” con altri artisti,
le continue analogie con generi culturali e tendenze artistiche, le metafore derivanti da segni
e gesti della contemporaneità, i soggetti raffigurati, gli spettatori. Rimandi che diventano
conferma o sorpresa. Con una storia raccontata che si svolge sotto i nostri occhi e che muta
con lo stesso nostro mutare. Dalla sincerità intellettuale profonda.
I due artisti esprimono in questo eclettismo figurativo di atmosfere sospese tra l’intellettuale,
l’erotico, il sentimentale e l’ironico, un’operazione dissacratoria sinceramente autentica e
personalissima. Per questo l’attenzione non è tanto verso il significato finale della produzione
artistica ma piuttosto rivolto alla chiave narrativa: è solo così che si riesce a leggere in un
unico percorso la ricerca, più concettuale che figurativa, che unisce in questa mostra la
fotografia seriale - statica e incisiva - l’uso del testo letterario e poetico, l’ossessione alienante
della ripresa filmica, la diafana tradizionalità della scultura e la grottesca ironia e senso ludico
della plasticità fisica di Anatole: lo scopo dell’opera è l’evoluzione della realizzazione.
Il percorso, non la meta. Così si leggono le maniacali successioni dei ritratti nelle fotografie
presenti in mostra: l’elemento risolutivo non è lo scatto fotografico (che è un pretesto),
ma l’incontro con l’Altro per arrivare al suo intimo più profondo. Non quindi l’opera finale,
ma il processo. Perché l’hic et nunc in questo caso diventa atemporale: c’è sì la folgorazione
del carattere dell’immagine fotografica ma per produrre un lampo che può durare moltissimo.
Infinito. Un singolare intreccio di spazio e di tempo, in cui i due artisti e i soggetti fotografati
iniziano a vivere in modo condiviso, quasi partecipando ad una seduta psicanalitica.
Poi però come scrive Barthes: “In primo luogo scoprii questo. Ciò che la Fotografia riproduce
all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai
ripetersi esistenzialmente”, e ancora, “la Fotografia diventa allora per me un medium bizzarro,
una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo:
un’allucinazione in un certo tempo temperata, modesta, divisa (da una parte “non è qui”,
dall’altra “però ciò è effettivamente stato”): immagine folle, velata di reale”. E l’arte che ne
deriva diventa intima, personale, voyeuristica, profonda: i messaggi e le sensazioni che ci
arrivano dagli uomini e le donne fotografati sono indicibili ma universalmente condivisibili.
La loro silenziosa fissità parla. Si racconta. In questo modo le frasi, le uniche frasi, che
compaiono come un taglio lacerante e rassicurante insieme sui ritratti (Was fürchten Sie denn
jetzt noch?; I lost my mother’s watch; Yvain ma puce, t’as la pêche? pourquoi tu paniques
aujourd’hui?) fanno diventare lo scatto ogni volta una rielaborazione, ne determinano l’unicità,
gli cambiano radicalmente il significato: è così un’impossibilità di condividere l’interpretazione
unica, quella letterale che troviamo nello spartito di Lulu di Wedekind-Alban Berg o nella poesia
di Elizabeth Bishop, o nella lettera immaginaria all’irreale amante di Sophie. Paul Virilio
definisce “vedere doppio” lo sdoppiamento della percezione, causato dalla convivenza tra reale
e virtuale. Potrebbe essere questo il senso. Storie private non raccontate ma che rimangono
impresse negli occhi e memoria dello spettatore: diventano pubbliche senza essere esibizioniste. Manipolate ma che conservano la loro integrità. Provocano? No, forse, anche. Romano
e Monterisi reinterpretano e sovvertono l’espressività dei volti fotografati: è parodia, crudeltà,
eclettismo? Un certo senso barocco di decorare, o almeno completare, con un non necessario
(che si scopre necessario l’ossessione della perdita e della paura. Sono volti impauriti, senza
volerlo, almeno intenzionalmente. Una spinta investigativa al limite tra modificazione e
Voyeurismo, tra sfera privata e sfera pubblica. Tutti temi ampiamente incontrati nelle poesie
del premio Pulitzer Elizabeth Bishop come L’arte di perdere, dove fra tradizione retorica
e ripetizione si medita sull’arte di perdere, costruendo un piccolo catalogo di scomparse che
include le chiavi di casa e l’orologio della madre, prima di raggiungere l’apice nella perdita di
case, terreni e persone care. Una poesia in parte autobiografica che rispecchia le reali perdite
subite dalla Bishop durante la sua vita. Come anche nel dramma teatrale della Lulu di Wedekind: nella torbida e seducente figura di Lulu la sessualità non ha bisogno di nascondersi,
è la forza primaria, che domina sull’essere umano (uomo o donna) confuso tra le sue paure e
debolezze. Nella drammaticità erotica e cruda della rappresentazione vi sarà una successione
inarrestabile di perdite. Lulu è violentata e violenta, vittima e carnefice, l’unico modo per
liberarsi è morire. Un’arte tragica di perdersi. Sia per la Bishop che per Wedekind “l’amore” è
sempre il punto di partenza di tutto questo, nelle sue infinite declinazioni. I ritratti sono da
considerare autentici nella loro fissità, come autentici sono i sentimenti delle opere della
Bishop e di Berg. Scrive Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica: “L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa,
può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica”, ma
se successivamente Benjamin ci dirà che ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità
è proprio la nozione di aura, ebbene negli scatti dei ritratti di questo progetto artistico l’aura
c’è tutta: una rappresentazione dell’umanità che ne costituisce un’incomparabile bellezza.
C’è ironia e molta. Gioco, trasformazione, un continuo e sottile gioco dell’hasard che ci rimanda
al un coup de dés di Mallarmé e al suo “silenzio circostante come fatto ordinario” *. Un gioco di
enigmi: perché le formiche? perché quelle facce non sorridenti? perché le frasi? perché tutti i
ritratti a mezzo busto? sono le persone soggetto o oggetto in questa manipolazione? sta a noi
costruire o ricostruire l’identità nascosta del significato. Lo spettatore giudicherà nella sua
autonomia, sulla sua esperienza. Recuperando in tutte le immagini, manipolate quel poco o
quel tanto, la singolarità del soggetto, “l’antica supremazia dell’io” (Nietzsche). Appurato che
costruzione, manipolazione e presentazione della figurazione (fotografica) sono elementi
significativi, diventa fondamentale creare con essi una storia, e non a lieto fine.
“Immaginariamente, la Fotografia […] rappresenta quel particolarissimo momento in cui,
a dire il vero, non sono né un oggetto né un soggetto: ma piuttosto un soggetto che si sente
diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte […]: io divento
veramente spettro. Il Fotografo lo sa bene […]. Il suo gesto sta per imbalsamarmi”, scrive
Roland Barthes. Le fotografie sono spettri, le bianchissime teste in ceramica, presenti nella
ultima sezione della mostra intitolata Night Spooks Theatre, sono fantasmi, spiriti anch’essi.
In un processo circolare in cui le singole variazioni conducono ad un unico mondo simbolico.
Ci si arriva a chiedere se questa arte performativa ci possa piacere: risponde per noi sempre
Barthes: “Mi piace / non mi piace: chi di noi non ha una sua tabella interiore di gusti, disgusti,
indifferenze?”. Ma anche Cicerone: “è difficile dire per quale motivo, ma le cose che riescono
più gradite ai nostri sensi e più fortemente ci colpiscono al primo apparire, sono proprio quelle
che più presto ci danno fastidio e ci stancano […] così in tutte le cose il sommo piacere
confina con la noia” (De Oratore).
Sono artisti narrativi, Romano e Monterisi, che tentano con questo lavoro una sintesi tra
generi letterari e artistici, tra musica e immagine. Un metasignificato che esplora il ruolo
del trasformatore (l’artista) e l’identità del soggetto. Il tutto con sottile parodia.
Giocando con l’alterità. Si può definirla Narrative art, dove la reale passione per la letteratura,
la musica e il testo li porta a costruire un’arte concettuale personale, riconducibile ad altre
influenze artistiche, dal visivo al musicale. La frase ossessiva che compare dappertutto e dà il
titolo alla mostra è chiarificante, il riferimento esplicito: stiamo parlano di possesso, di morte,
di dramma, di tragedia epica, di perversione, ma stiamo parlando anche di donne, anzi di una
donna, Lulu. Il testo è connaturato al progetto artistico. Illuminante un passo dell’artista
sudafricana Marlene Dumas: “Scrivo d’arte perché sono credente. Credo nel potere delle parole,
specialmente nella PAROLA SCRITTA. Ho visto la gloria e il potere della parola. Ho assistito al
potere della ripetizione, all’intossicante eccitazione della ritmica retorica. Scrivo perché amo le
parole. Cosa c’è di più erotico di un corpo con sex appeal? Una frase con sex appeal”.
Il percorso espositivo di Was fürchten Sie denn jetzt noch? si conclude con un’installazione
site-specific: Night Spooks Theatre: è lì che incontriamo l’unico cadavere/fantasma di questa
mise-en-scène artistica. Anatole. Ci fa improvvisamente dimenticare Lulu, anche se ritroviamo
i suoi fantasmi, che sono fisicamente presenti. Sono gli spettri affusolati e stilizzati della
progenie di Anatole, ma anche i cadaveri plastici che Lulu lascia uno dopo l’altro sul campo.
L’enorme marionnette en tissu Anatole simula sarcasticamente il cadavere di Anatole Broyard,
critico letterario del New York Times e scrittore americano morto negli anni Novanta del secolo
scorso. Si dice che sia il soggetto biografico che ha ispirato Philip Roth per il romanzo La
macchia umana, da cui è stato anche tratto un film nel 2003 con Anthony Hopkins e Nicole
Kidman. Ma non è così (Roth dirà che era invece un suo amico, tale Mel Tumin, sociologo esperto
di “relazioni razziali”). Tutto questo poco importa. Interessa invece come Anatole, Mel o Coleman
(il protagonista del romanzo) siano assediati da morti sospette e da verità negate.
Dove appare anche una specie di Lulu (la giovane amante del protagonista, Faunia, anche lei
dalla giovinezza drammatica e dal destino tragicamente interrotto insieme a quello del suo
amato). Perché Anatole e i suoi candidi, bianchissimi fantasmi e molteplici anime, dalla
presenza biancolatte? Anatole Broyard nella realtà della sua vita ha negato, tenuto nascosto fino
alla morte, le sue origini di uomo di colore. Nell’autentica biografia di Broyard il suo segreto
viene svelato al funerale con la presenza della vecchia madre e delle sorelle decisamente nere.
In realtà molti conoscevano già la verità ma Anatole per tutta la vita si è dato un gran da fare per
tenerla nascosta, costretto a celare una parte imprescindibile di sé, come le proprie origini.
Vendere l’anima. Ma l’anima di un nero è bianca? L’artista russo Vasilij Kandinskij in Lo spirituale
nell’arte (1909) scriveva “In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima.
Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde”.
È evidente in questo caso uno sdoppiamento della percezione di sé, causato dalla convivenza
tra la realtà e il desiderio. La parte che si vorrebbe, la parte che si rimuove. La parte oscura di
ognuno di noi: “Tu non mi guardi mai là da dove ti vedo”, Jacques Lacan in Il Seminario, libro XI.
Nella sua Storia dell’arte Gombrich comincia con una dichiarazione che sicuramente stupisce
tutti: “Non esiste in realtà una cosa che si chiama arte. Esistono solo gli artisti”. Sarà vero?
Una battuta tendenziosa che potrebbe però bene riferirsi alle arti visuali degli ultimissimi anni,
quando preponderante è una nuova concezione scenica e gestuale. In questo ben si calano
Annarosa Romano e Paolo Monterisi.
Chiara Visentin
* Stéphane Mallarmé - Un coup de dés jamais n’abolira le hasard
Dal 1962 al 1986 il critico d’arte David Sylvester ha raccolto nove interviste ad un originale e controverso protagonista dell’arte europea del Novecento: il pittore Francis Bacon. Sylvester, nella prefazione del volume in cui le raccoglierà nel 1993, scrive “come la macchina fotografica, il registratore non può in linea di massima mentire né discriminare. Esso registra fedelmente e puntualmente false partenze, fraintendimenti, errori di sintassi e pensieri mal formulati, digressioni, risposte o domande fatte senza riflettere, involontarie distorsioni dei fatti provocate dal non avere il tempo di pensare chiaramente”.
È successo anche a noi, a me e agli artisti di questa mostra, Paolo Monterisi e Annarosa Romano, quando li ho intervistati, a più riprese. Parole in libertà, fissate da una banalissima applicazione audio di riconoscimento vocale ormai presente in tutti gli smarthphone.
Qui alcuni passaggi, riportati senza alcuna revisione o censura.
CV_Titolo ostico, questo della mostra che abbiamo deciso rimanesse in lingua tedesca. Perché Was fürchten Sie denn jetzt noch?
R&M_Was fürchten Sie denn jetzt noch? è una delle tre didascalie che appaiono ossessivamente sotto i volti dei ritratti fotografici che sono esposti in mostra: non vanno intesi come fotografie in senso convenzionale ma più come “ritratti di fotografie”, “fotografie di fotografie”. Per questo abbiamo cercato di accentuare l’aspetto grafico, descrittivo, decorativo. La scelta della stampa su carte specifiche per il disegno, la sgranatura delle immagini, la relativa mancanza di profondità, l’inserto della didascalia che, come font e colore, deve suggerire l’idea di una pubblicità di un prodotto di basso livello commerciale. Il titolo Was fürchten Sie denn jetzt noch? (Di cosa hai ancora paura adesso?) è la frase che Lulu pronuncia dopo aver finalmente convinto il dottor Schön, giornalista e suo primo seduttore, a sposarla.
CV_Perché Lulu? Perché partire da un testo letterario/operistico per poi declinarlo in figure, oggetti, video? Due studiosi britannici, Roy Porter e Lesley Hall, nel 1995 hanno scritto in un famoso libro The facts of Life. The Creation of Sexual Knowledge in Britain, 1650-1950, come “the erotic could not exist in society without the objects, images, metaphors and symbols to represent it”, è un po’ il tema della mostra.
R&M_Il nostro lavoro è il tentativo di avvicinare il tema della inadeguatezza, del fallimento, della delusione amorosa, dell’abbandono, dell’erotismo e della nevrosi che (se non “integrata”) sfocia nella psicosi e perversione. Non è un giudizio sulla società e gli individui, è una fotografia sfocata, scattata velocemente - e male - della vita e delle relazioni tra le persone dove l’erotismo come dinamica compulsiva diventa leitmotiv da palcoscenico. Procediamo con la strategia di un racconto dove in ogni nuova esposizione uno o più personaggi del ciclo precedente ritornano - sono presenti come elemento, anello, giuntura, soggetti di continuità con la nuova proposta. È, in questa mostra, il caso di Yvain Fiquet, con la fotografia dove appare la didascalia: Yvain ma puce, t'as la pêche? pourquoi tu paniques aujourd'hui?
CV_La grottesca e ironica figura da voi inventata di Yvain Fiquet, un improbabile amante di Sophie Calle che fate vivere in varie vostre opere è assolutamente geniale. Ormai per l’immaginario comune Yvain esiste. Non è pura invenzione. Come una delle vostre artiste di riferimento, la Calle, anche voi immaginate storie vissute o inventate: alla fine il pubblico non riesce a capirle, ciò che è vero e falso. Si crea un forte circuito tra pubblico e privato, tra oggettivo e soggettivo, dove realtà e finzione spesso non vengono percepite.
R&M_Yvain Fiquet, il personaggio da noi inventato, innamorato perdutamente di Sophie ma non corrisposto. Yvain secondo noi ha scritto a Sophie centinaia di lettere. Oggi Yvain abita a Castelsarrassin, un comune nel dipartimento del Tarn-et-Garonne nei Pirenei; vive isolato in una baracca di proprietà della madre (ha anche preso il cognome della madre che è una Fiquet- come la moglie di Cezanne). E’ stato ricoverato un paio di volte in un ospedale psichiatrico ma poi dimesso, non si rassegna all’idea di non avere almeno un appuntamento con Sophie. Passa le sue giornate scrivendo a Sophie e masturbandosi.
Abbiamo scritto alla galleria Perrotin di Parigi (Perrotin vende le opere di Sophie Calle) dicendo che siamo molto preoccupati per Yvain e chiedendo loro di darci una mano o comunque un suggerimento. La lettera l’abbiamo mandata a molti collezionisti e a tutte le gallerie che trattano Sophie Calle. Abbiamo conosciuto Yvain a Cannes, all’Avion, un ristorante nella zona del vecchio porto non lontano dal Pavillon du Festival, da allora ci telefona ogni due o tre mesi, chiedendoci di realizzare dei quadri per Sophie, descrivendoci al telefono quello che ha in mente e i soggetti che vorrebbe; li realizziamo per lui dividendoci i compiti, uno di noi a turno li realizza, l’altro aggiunge qualche dettaglio.
CV_Torniamo a Lulu. Opera di Alban Berg, perversa, forte, innovativa, anche un po’ patetica (nel senso letterale del termine pathos) alquanto sfortunata, io direi, che ha segnato non solo un’epoca ma anche trasversalmente nel tempo intellettuali, artisti, scrittori, registi. Sigmund Freud in Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905, scriveva che la perversione è un originale e universale disposizione dell’istinto sessuale umano. Egli credeva che i desideri inconsci fossero le condizioni maggiormente determinanti per i comportamenti umani, la chiave motivante della vita degli individui: lo sviluppo umano era interamente psico-sessuale. Jean Baudrillard scrive: “Uno strano orgoglio ci spinge non solo a possedere l’altro, ma a penetrare il suo segreto, non solo a essergli caro, ma ad essergli fatale. Il piacere dell’eminenza grigia: l’arte di far sparire l’altro. Ciò richiede un intero cerimoniale”.
R&M_La parola innamoramento, contiene un aspetto isterico-perverso. Giacomo Contri (che con Antonio Di Ciaccia ha tradotto i Seminari di Lacan) ha coniato questo – secondo noi centratissimo - gioco di parole INNAMORAMENTO - IN AMORE MENTO. Lulu diviene un’estensione, la simulacrizzazione del movente – di uno dei possibili moventi – della perversione e della conseguente sacralizzazione di una mutilazione. L’aveva capito molto bene anche Karl Kraus, pur nella sua distanza e antipatia nei confronti di Freud. “Io ti amo, ma inspiegabilmente c’è qualcosa in te (l’oggetto a) che amo più di te, perciò ti mutilo” (Lacan). È la parte per il tutto: i peli del pube, la vagina, la donna come feticcio – anche nel senso di Houellebecq e della sua provocatoriamente oscena affermazione: la donna? tutto il grasso attorno a un buco: ecco Lulu per tutti i suoi odiosi amanti. Tutti, uomini e donne, compresa la contessa Geschwitz e il suo inutile sacrificio.